Periodicamente, nei territori sui quali il Centro Studi Silvio Pellico ETS concentra la propria attività culturale no profit, emergono confronti politici e notizie giornalistiche che innescano dibattiti e qualche volta polemiche sui rapporti fra le istituzioni pubbliche, i Comuni primi fra tutti, e alcune organizzazioni di volontariato, siano esse in campo culturale, sportivo, assistenziale, sociale.
Diversi anni or sono, di fronte a un articolo provocatorio, rilanciato su social media, nel quale denunciavamo l’inveterata abitudine di alcuni presidenti di associazioni di presentarsi sistematicamente ai Sindaci del territorio “con la manina tesa” per reclamare contributi, ci fu una sollevazione, anche giusta, da parte di diversi operatori meritevoli, che si sentirono offesi in qualche modo.
Altri, recependo il significato della provocazione, reagirono in modo propositivo. Rimandiamo, ad esempio, all’intervento del prof. Dario Seglie, direttore del CeSMAP, Centro Studi e Museo di Archeologia e Antropologia della Città di Pinerolo, “Cultura e sistema culturale del Pinerolese“, nel quale sottolineava: “è importante recuperare il senso economico della cultura inserendolo organicamente nelle politiche come fattore moltiplicativo delle altre economie territoriali”.
L’accusa principale che fu rivolta alla nostra Associazione fu quella di essere “aziendalisti”, ovvero di concepire la nostra attività, interamente basata sul volontariato dei soci, con gli stessi criteri di un’attività imprenditoriale. Come se l’efficienza, l’attenzione a fare quadrare i conti, evitando di seminare debiti per poi correre a chiedere l’aiuto pubblico per risanare i bilanci, fossero peccati gravi da scontare e come se realizzare iniziative no profit, nello sport, nel sociale, nella cultura, debba essere sinonimo di perdere denaro a tutto spiano.
L’introduzione della legge 117 del 2017, che ha strutturato il Terzo Settore, pur con le italiche lentezze della sua applicazione (lentezze che anche noi abbiamo praticato, impiegando qualche anno per aderire al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore) ha tuttavia imposto, anche dal punto di vista della gestione amministrativa delle associazioni, un cambiamento profondo, obbligandole a “fare i conti”. Sulla propria missione anzitutto, ma anche sulla propria sostenibilità. Perché se è vero che i volontari “lavorano” gratis, senza alcun compenso, il loro impegno deve corrispondere a un reale vantaggio e risultato per la collettività.
Altrimenti non si fa volontariato, ci si incontra per riempire i pomeriggi e passare il tempo libero in allegria. Cosa legittima e buona, ma non utile per la comunità nel suo complesso. Peggio ancora, se gli incarichi direzionali in un’associazione diventano biglietti da visita da fare valere per le proprie attività economiche private, come una sorta di patente di autorevolezza da ricaricare in parcella.
Tuttavia, e sottolineiamo il tuttavia, la ricerca dell’efficienza a tutti i costi si è trasformata a sua volta in una ossessione aziendalista da parte di alcuni assessori, che nel pur legittimo bisogno di fare quadrare i conti pubblici, ogni anno in cura dimagrante, stanno progressivamente affrontando il rapporto con il Terzo Settore su un piano di calcolo puramente economicistico. Propongono sedi e chiedono l’affitto, come a un’azienda. Oppure abbandonano i servizi culturali essenziali, prime fra tutte le Biblioteche Civiche, presidio sociale ma anche di socializzazione, in spazi fatiscenti, preferendo dare in locazione proprietà comunali ad attività puramente commerciali legittime e importanti, per incamerare cifre comunque irrisorie rispetto all’entità dei bilanci comunali.
Lo Stato ha ripensato, sia attraverso l’istituzione del RUNTS sia attraverso strumenti legislativi avanzati, come la coprogettazione, al rapporto fra istituzioni pubbliche e cittadini organizzati nel volontariato, riconoscendo che, in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, l’associazionismo può rispondere in modo efficiente ed efficace ai bisogni della popolazione. Purché, appunto, efficiente e organizzato, strutturato in modo da poter essere partner attivo delle amministrazioni comunali in progetti di interesse pubblico. Il cambiamento del mercato del lavoro ha messo a disposizione della comunità un grande numero di persone con competenze elevatissime ancora in età attiva, che possono e vogliono gratuitamente dare il proprio contributo alla comunità nella quale vivono. Dirigenti in pensione o in attesa della pensione, professionisti ritirati dalla vita produttiva ma ancora attivissimi, ma anche giovani studenti coinvolti.
Occorre però che questi nuovi strumenti legislativi si trasformino in opportunità concrete. Da un lato insistendo sul concetto che la cultura, lo sport, il servizio sociale, debbano essere efficienti e affrontino la propria missione con quei criteri “aziendalisti” che fanno ancora storcere il naso ad alcuni amministratori, legati a vecchi modelli di clientelismo politico e ideologico per i quali è meglio finanziare “gli amici di partito” nella speranza di ottenere qualche voto, salvo poi perdere la poltrona perché i servizi erogati non corrispondono alle aspettative dei cittadini elettori. Dall’altro, da parte degli enti no profit, strutturandosi per dare risposte efficienti e “di mercato”, dove per “mercato” si intende la capacità di offrire quello che la comunità chiede e non quello che piace a noi e che ci appaga, in campo culturale, sportivo, assistenziale.
In parole povere, se organizzo un concerto di musica africana medievale perché sono un appassionato di bonghi, ma nessuno viene ad ascoltarlo, forse il sostegno finanziario comunale non è ben speso. O se impegno uno spazio pubblico di centinaia di metri quadrati per non farci nulla salvo le riunioni degli amici, occorrerà interrogarsi se questi spazi possano essere meglio impiegati.
Coprogettare significa unire le forze per trovare idee e sviluppare progetti che rispondano alla domanda effettiva della cittadinanza e che possano trovare nel tempo un equilibrio di sostenibilità finanziaria, ad evitare che le attività culturali, sportive, sociali, diventino una voce perenne in negativo dei bilanci pubblici. Coprogettare significa anche condividere un percorso comune fra pubblica amministrazione e partner del terzo settore, volto a risolvere da un lato la lentezza burocratica che spesso impedisce agli amministratori di portare a compimenti i progetti e dall’altro a spingere le associazioni ad uscire dal proprio guscio e ad aprirsi quanto più possibile alle istanze di nuovi soci, possibilmente giovani, anziché chiudersi in una sorta di rassicurante residenza per anziani magari competentissimi ma un poco autoreferenziali.
La trasformazione del Terzo Settore in attività di impatto economico, riconosciuta e anche forzata in qualche modo dallo Stato centrale, non ha ancora prodotto i suoi frutti sui territori e molti fattori concorrono a fare sì che questa trasformazione, auspicabile e inevitabile, sia sufficientemente rapida. Molte associazioni affrontano difficoltà critiche nel trasformarsi in Enti riconosciuti, perché prive al loro interno delle competenze necessarie e, ammettiamolo, anche della voglia dei soci volontari di affrontare la pesante burocrazia che questo passaggio comporta. La normativa tuttavia impone questo passaggio, pena l’incapacità a breve delle associazioni stesse di relazionarsi all’istituzione pubblica e di ricevere da questa il benché minimo sostegno. Le soluzioni possibili sono diverse: sciogliersi, abbandonando magari anni di impegno volontaristico e un meritorio rapporto con il territorio e la comunità; strutturarsi pesantemente, salvo correre il rischio di non riuscire più a dedicarsi alla missione associativa, a causa dei gravami burocratici; unire le forze con altre associazioni, per aiutarsi e sostenersi a vicenda e magari scoprire che si può fare di più e meglio se si lavora insieme anziché ciascuno nel suo orticello. La terza via è sicuramente quella che occorrerà compiere, magari rinunciando a qualche medaglietta sulla giacca, qualche titolo vuoto da presidente, consigliere, membro del direttivo.
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